Chi siamo
News Stecca
Pool
Carambola
Snooker
Rubriche
TV e Web
video
PDF

Gli aggiornamenti al bweb Magazine sono temporaneamente sospesi;
per le notizie sulle gare e sul mondo del biliardo italiano e mondiale vieni a trovarci nel

Forum di BiliardoWeb



Il Sogno Americano

"BWMagazine agli US Open, l'habitat naturale del giocatore di pool"
 

Nessun gioco come il pool, nell’immaginario generale dei non addetti ai lavori, si basa su leggende metropolitane di cinematografica memoria. Chi di noi ha scelto di dedicare parte della propria vita al biliardo americano per eccellenza, almeno inizialmente, si è avvicinato al gioco con l’immagine di Paul Newman davanti agli occhi, che avvita la sua Balabushka e si tuffa nell’immensa distesa di tavoli ad Atlantic City per sfidare, in un clima quasi religioso, i più famigerati professionisti americani.

Per una volta, ci concederemo la licenza di un racconto meno impersonale, meno giornalistico, ma descriveremo l’esperienza di chi, tra amici, racconta di aver vissuto quello che per anni si è fantasticato tutti insieme.

Il «diario di bordo» che voglio condividere con voi, affezionati lettori, si riferisce all’edizione 2006 degli US Open di Palla 9, svoltisi dal 25 settembre al primo ottobre, ma in realtà nasce molto, ma molto prima.

Johnny Archer
Johnny Archer alla spaccata

Il mio viaggio verso Chesapeake, in Virginia, è iniziato una dozzina d’anni fa, quando per la prima volta mi trovai di fronte a un tavolo da pool, nel buio sottoscala di un baretto vicino casa. Fu lì, in quel giorno ed in quel momento, che sentii gli stessi rumori e vidi gli stessi colori che mi avevano stregato, inconsapevolmente, dalla pellicola di Martin Scorsese poco tempo prima.

La «vocazione», perdonate la sacralità del termine, arriva quando meno te l’aspetti, ed in quel frangente cominciai a realizzare. Le pareti umide intorno al Brunswick scalcinato erano sparite, la porta del bagno che si apriva ogni tanto vicino alla sponda corta e lo spigolo di un muro troppo vicino al tavolo erano particolari che solo ora, dopo tanto tempo, tornano alla mia memoria.

Gli avversari, i cui zainetti scolastici d’ordinanza erano ammassati sotto il tavolo o lungo il muro, non erano altro che le mie versioni di Steve Mizerak, il primo avversario di Eddie Felson nel «Colore dei Soldi», o di Keith McCready, il Grady Season destinato a soccombere per mano del talentuoso Vincent Lauria-Tom Cruise.

Il «mio» film proseguì con tanti allenamenti, tante partite e tanti tornei. Feci presto ad accorgermi che «Il Colore dei Soldi», per quanto affascinante, era solo una storia da cinema. Tornei raffazzonati, campionati provinciali e italiani da barzelletta, federazioni in lite erano solo alcune delle esperienze che rimpicciolivano sempre di più lo schermo. Il giocatore di biliardo, attorno al quale ­– per definizione – si dovrebbe sviluppare tutto il «carrozzone» del pool, non era in realtà che la famigerata «ultima ruota del carro». Prima venivano l’organizzazione (approssimativa), le esigenze delle sale (spesso per nulla adatte ad ospitare competizioni), delle federazioni (e qui un bel «no comment» di vero cuore è il minimo), degli sponsor (quando c’erano) e di tutti quelli che, nel corso degli anni, si sono «prodigati» per portare il pool italiano all’agonizzante situazione odierna. Poi, in fondo alla fila, sorridenti, i giocatori.

Ma la Passione, c’è chi lo chiama Virus, ormai aveva preso campo, e il suo cammino irreversibile, i cui particolari, state tranquilli, vi risparmierò, mi hanno portato, stecca in mano, sino ai giorni nostri.

John Schmidt
John Schmidt, vincitore a sorpresa

Avanti veloce. 26 settembre 2006. Come sempre, sto giocando a biliardo. Come, fortunatamente, accade qualche volta, imbuco una palla, l’ultima della partita. Parte un applauso, fragoroso, forse immeritato. È lì che alzo gli occhi, e realizzo. Lo scenario è da sogno, ebbene sì, il Sogno Americano.

All’interno del Chesapeake Conference Center, il moderno centro congressi che ospita annualmente il torneo più importante del Mondo, il pubblico gremisce le ampie tribune sin dai primi giorni. Sedici tavoli Diamond, il top per il pool, difficili ma regolari, sono piazzati sulla moquette, larghi tra di loro e ben visibili da ogni posizione della grande sala. Solo l’Arena televisiva, in posizione centrale, interrompe la distesa di tavoli col suo sfavillio, e i posti a sedere per il tavolo centrale sono quasi tutti prenotati per l’intera durata del torneo.

Il brusio della folla, che sa di pool quanto in Italia si sa di calcio, è intervallato da applausi (e non schioccate di dita) composti, non c’è nulla che possa distrarre il giocatore dal suo lavoro. All’inizio di ogni giornata, la voce da film di Scott «The Shot», il popolare announcer dei grandi eventi di biliardo americano, scandisce i nomi dei giocatori impegnati, provenienti da ogni parte del mondo.

Alcuni paragonano gli US Open, o semplicemente «The Open», al Wimbledon del tennis: il Torneo. Nulla di più vero, e nulla di minimamente avvicinabile. Anche oggi, con il terremoto suscitato nell’ambiente dall’avvento dell’IPT, con i suoi milioni di dollari, il sapore della kermesse annuale che si tiene in Virginia è immutato. Chi vince quella gara è una leggenda del pool, punto e basta.

Come nei film, esattamente uguale, i «campi di battaglia» sono due, forse tre. Il primo è il Conference Center, teatro delle competizioni ufficiali. Il secondo, quello dove forse la competizione è più cruenta, è il Q-Master, la sala biliardi di Berry Behrman, l’organizzatore dell’evento. Dopo l’orario delle partite, è lì che volano i dollaroni, e i «duri» cominciano a giocare. Si chiama «Action», e per tanti giocatori, alla Tom Cruise, il vero lavoro comincia lì.

Rodolfo Luat
Il filippino Luat,
finalista del torneo

Al Q-Master si respira pool, sin dal parcheggio antistante. Le prime edizioni dell’Open si tennero proprio in quella sala, e mai come in questo caso la descrizione di un posto è difficile. Si, perché parlare dell’infinita distesa di tavoli, Brunswick e Diamond, disposti in tre ambienti diversi, o del bancone del bar tipicamente yankee, o delle tribune in legno che danno sui tavoli più duri, quelli delle partite più grosse, è una sciocchezza. Il brivido che ti attraversa la schiena quando entri per la prima volta, il fiato corto a pensare che stai giocando sullo stesso tavolo su cui posò la mano Steve Mizerak, o la foto autografata di Willie Mosconi esattamente di fronte al tuo naso nel bagno dei signori (!), beh, quelle sono sensazioni che bisogna provare.

La sala principale, quella in cui tutte le sere c’è «Action», è sovrastata dagli stendardi raffiguranti i trenta vincitori delle precedenti edizioni dell’Open. Ogni giocatore sulla faccia della terra sogna di essere il prossimo. Poco sotto, sconosciuti e infallibili «road players» sfidano campioni affermati, due razze diverse a confronto. Sulle tribune, il fruscio dei «verdoni» che passano di mano in mano scandiscono il susseguirsi delle partite.

Il terzo «Open», quello che possono giocare tutti, si svolge in una piccola saletta del centro congressi, dove un manipolo di attempati signori dai capelli grigi, quote alla mano, gestiscono il giro di scommesse. Pile di banconote verdi alte così, allo scadere di ogni turno di gioco, passano da quella stanza e, nella maggior parte dei casi, non tornano più indietro.

Quest’anno poi, devono essere stati ben pochi i fortunati a scommettere su John Schmidt, la cui effige ora pende da soffitto del Q-Master. Non era tra i favoriti, nonostante il suo soprannome, Mister 400, la dica lunga sulle capacità dell’individuo, specialmente a pool continuo.

Il signor Schmidt, 33 anni, ha rischiato di non partecipare ad un torneo che ha poi vinto a mani basse. Fino a pochi giorni dall’inizio della gara John era ancora alla ricerca di un «backer», uno sponsor che ne coprisse le spese. Da quelle parti funziona così, i giocatori cercano chi copre loro le spese e poi dividono il montepremi. Il fortunato benefattore che, all’ultimo momento, ha deciso di «coprire» Mr. Schmidt, ha guadagnato, in una settimana, venti volte quello che aveva investito.

Kuo Po Cheng
Kuo Po Cheng

Dal punto di vista tecnico, credetemi, vale di più una settimana da spettatore che tre mesi di allenamento. Per chi non l’avesse capito, il gioco del pool consiste nel mandare in buca tutte le palle, e fare sì che il tuo avversario non abbia mai l’occasione di fare lo stesso. Tutto il resto sono sfumature: lo stile, il ritmo, l’impostazione, la steccata, sono un contorno, un mezzo per arrivare lì. L’importante è non sbagliare mai, specie le cose facili. Nel «tempio» del pool puoi vedere scene che hanno dell’inverosimile, ultrasettantenni che faticano a piegare la schiena ma non sbagliano una palla, bambini, ma bambini sul serio, che chiudono partite manco giocassero alla Playstation (menzione speciale per Landon Shuffet, un soldo di cacio che diventerà un incubo per tutti).

In Italia si parla spesso dell’America biliardistica come di un posto mistico, dove hanno la scienza infusa del pool e sanno cose che «noi umani»… Beh, non credo che questo sia del tutto vero. Semplicemente, da quelle parti hanno la cultura del gioco, in tanti ci campano anche senza essere Strickland, e sanno che le parole non contano nulla. Quello che è palpabile, a livello tecnico, è la concretezza del gioco, il gesto viene superato dal risultato. In pratica, nessuno ti regala nulla, il più forte è quello che sbaglia meno e vince di più, non importa come.

Corey Deuel
Corey Deuel,
talento purissimo

Lo stesso John Schmidt ha un’impostazione quantomeno discutibile, per i nostri parametri. La sua steccata è rigida, di spalla, e addirittura tiene la testa leggermente piegata da una parte e ha un brandeggio talmente corto da sembrare inutile. Ebbene, questo signore, però, ha i nervi d’acciaio e una mira infallibile, e ha messo in fila fior di campioni, dal Filippino Rodolfo Luat, in finale, al fortissimo Gabe Owen, senza contare i «miti» già assodati come Johnny Archer, Earl Strickland e Corey Deuel, a mio sindacabilissimo parere il talento più puro del pool moderno.

Tra le poche note «stonate» della trentunesima edizione degli US Open, l’assenza di alcuni grandi nomi, come Efren Reyes, Francisco Bustamante e Ralf Souquet, impegnati in altre gare o assenti per affari privati.

Oltre al sottoscritto, che alla terza partita aveva già smontato le stecche e vestito i panni di «vostro inviato», gli italiani in gara erano due: Fabio Petroni, che, per una volta, non ha fornito una prestazione degna delle sue capacità capitolando al quarto turno per mano di Ronnie Wiseman e Giorgio Margola, il migliore degli azzurri, che ha ceduto solo ad un ottimo Luc «Machine Gun» Salvas, il giocatore più veloce del Pianeta, un paio di turni più avanti.

L’atmosfera, il rispetto e la dignità per la figura del giocatore, il «pool-business» al suo massimo livello, la gioia di vedere intere famiglie, composte e competenti, sulle tribune di Chesapeake. Ci sarebbe, davvero, da scriverne per tanto, tanto ancora.

Us Open logo Invece rieccoci qua, dall’altra parte dell’Oceano, a ripensare, con un po’ di rimpianto, a momenti che, per chi gioca a pool, valgono da soli anni di attesa. Ricominciano i nostri tornei piccoli piccoli, i nostri campionati multi-federazione, insomma, riparte un altro anno pedalando, in salita, sperando di scollinare il più presto possibile.

Ma da adesso, sul serio, tutto è diverso. A volte anche la fede può venire meno, a volte ti chiedi chi te lo fa fare. Ora lo so, e spero, almeno un po’, di avere convinto anche voi, amici. Il Paradiso esiste davvero. E ho tanta voglia di giocare a biliardo.


 
Stampa Stampa           Commento Commento           Top Torna su
 
 
Storico

 
Calendario
Eventi in calendario nei prossimi 30gg:
Nessun evento presente
Visualizza il calendario nazionale

Attività regionale

 
Feed RSS

 
Partner

 
Link

 
 
Tutto il web bweb Magazine