Manfredi Scribani
Di Francesco Tomati, in Pool - Articoli - dicembre 2007

Per una volta, dopo quasi un anno e mezzo, scriverò un articolo in prima persona, contravvenendo ad una della regole basilari della carta stampata.

Il motivo di questa eccezione è semplice, questo non è un articolo. Non è cronaca. È un pensiero, una riflessione, un saluto.

Ormai quasi tutti, nell’ambiente del pool italiano, sanno che Manfredi Scribani, il presidente della Federbiliardo, se n’è andato, in silenzio, il 23 novembre scorso.

Ma io non me la sento di parlare del Professor Scribani, della sua carriera federale, del suo ruolo nel mondo del pool italiano e di quanto ha fatto in veste ufficiale. A questo penseranno, e hanno già pensato, altri, più qualificati ed informati di me.

Io voglio ricordare solo il mio amico Scrich.

Lo conobbi tanti anni fa, quando la Genova del pool stava passando un momento assai buio. Mancavano le sale, e questa non è una novità. Scrich era un professore in pensione dalla faccia sempre sorridente, e gestiva una piccola sala da italiana, quattro tavoli poco frequentati. Un giorno Manfredi decise di montare un biliardo da pool sul retro, e fu lì che venne in contatto con la passione dei genovesi per il gioco all’americana. Ne fu immediatamente contagiato.

Entro breve i birilli sparirono per far posto a sette tavoli da pool, Scrich si rimboccò le maniche e fu il suo entusiasmo, a sua volta, a contagiare noi. Quel posto divenne la nostra casa, per gli anni successivi.


Manfredi Scribani

Scopro ora quanto sia difficile esprimere attraverso una tastiera quello che ti prende allo stomaco, quel senso di impotenza che ti pervade quando ti danno una notizia che non penseresti mai di dover apprendere. Almeno non ora.

Mi vengono in mente un sacco di «flash», ricordi sparsi ma non confusi, di quello che era il «maestro» di cerimonie fraterne, confidenziali, chiassose e spensierate.

La sua proverbiale, e col senno di poi maledetta, sigaretta sempre stretta fra i denti. Il tempo che passava, le poche ore di sonno che lo hanno fatto invecchiare forse un po’ troppo in fretta. Più si stancava, più sorrideva. Maggiori erano le difficoltà che il tipo di vita che aveva scelto gli arrecavano, e meno te ne accorgevi. Questa «proporzione inversa», forse, era quello che gli dava la forza per andare avanti, e per far crescere il bene che tutti noi gli abbiamo voluto sempre di più.

Le sue notti insonni davanti al computer, o attaccato al telefono, per organizzare gare, campionati italiani e nel contempo essere l’ospite premuroso di una casa che non aveva padroni.

La sua risata, rauca di Marlboro, chi l’ha sentita almeno una volta non la dimentica più. Io no di certo.

Mamma mia quanto ti ho preso in giro. Mi viene particolarmente bene la sua imitazione, e persino i giocatori stranieri, che diventavano amici suoi da subito, senza peraltro capire una parola di quello che diceva, mi fermavano agli Eurotour per sentirla. Anche se, per me, il momento più divertente era quando lui imitava me che facevo la sua voce.

Manfredi aveva, ha, una famiglia meravigliosa. Al suo funerale ho visto negli occhi di suo figlio Giuseppe quella solidità nel superare le difficoltà che dev’essere parte del loro dna. Non me la sono sentita di abbracciare lui, sua sorella Miriam e la loro mamma. Sanno che il valore di loro padre era ben chiaro in tutti noi, quanto gli fossimo affezionati, e basta così. Come sarebbe bastato a Lui.

A volte gli telefonavo incazzato, per questioni di federazione. Porca miseria, ci fosse stata una volta in cui non è riuscito a strapparmi un sorriso, a tenermi al cellulare per un’ora e a far finire tutto a tarallucci e vino. Non ce la facevo, era più forte di me. Oggi ne sono ancora più felice.

Scrich ci sentiva solo dall’orecchio sinistro. Questa è la versione ufficiale. Nemmeno da quello, a volte, quando era il caso. Salvo poi sorprenderti nel captare anche flebili sussurri. A volte, quando era il caso. Te l’ho detto mille volte, caro Scrich, che eri un paraculo. E non pensare, caro Amico mio, che me lo rimangerò ora, solo perché per un po’ non ci vedremo.

Ciao,

Francesco



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