Tradizionalmente, il periodo delle feste è, per i giocatori di pool di tutto il mondo, il momento per ricaricare le batterie, magari divertirsi in qualche torneo natalizio e dedicarsi, finalmente, alla famiglia e al relax.
Da qualche lustro a questa parte, questa regola non vale più proprio per tutti. Dieci supercampioni, cinque europei ed altrettanti americani, hanno gli occhi di tutti puntati addosso, e si giocano il più prestigioso trofeo a squadre del pianeta: la Mosconi Cup.
Intitolata a colui che è definito il più grande di sempre (insidiato di questi tempi dal solo Efren Reyes), Willie Mosconi, guarda caso americano di origine italiana, la «Ryder Cup» del biliardo vede ogni anno, dal 1994, gli squadroni del Vecchio e del Nuovo continente contendersi la palma del migliore, per 12 mesi.
La squadra Europea al gran completo
In molti sentenziano che, se venisse organizzata anche una compagine asiatica, USA ed Europa dovrebbero accontentarsi di un ruolo da comprimarie. È vero che alcuni dei più grandi giocatori del mondo provengono dall’oriente, e che il livello medio di nazioni come le Filippine e Taiwan è impensabilmente alto, ma è altresì innegabile che, sui dieci o dodici giocatori impegnati annualmente nella Mosconi, almeno quattro o cinque campioni del mondo ci sono sempre e ognuno dei selezionati sarebbe in grado di sconfiggere chiunque.
Poi c’è la tradizione che, seppur ancora abbastanza recente, ha saputo prendere piede con eccezionale velocità, animata in primis dall’enorme spirito patriottico statunitense ed assecondata dall’orgoglio europeo, sempre più compatto e negli ultimi anni rafforzato da contingenti di supporters, per lo più olandesi ed inglesi, che conferiscono colore (e, spesso, cori da stadio) all’atmosfera.
L’albo d’oro, per il momento, parla chiaro. I «padri» del pool sono gli americani, e infatti fino a quest’anno, su quattordici edizioni, solo in due casi la Coppa è stata conquistata dagli europei, a fronte delle undici vittorie statunitensi e dell’unico pareggio dell’anno scorso.
Il sentore che, per il pool del nostro continente, il 2007 sia stato un anno positivo, alla vigilia c’era di sicuro. Il «segno» era stato il titolo mondiale di palla 9 conquistato inaspettatamente dal britannico Daryl Peach, non certo favorito, nelle Filippine. Con lui, a difendere la bandiera blu stellata, un mix di esperienza e classe (Ralf Souquet), solidità (Niels Feijen), talento «straripante» (Tony Drago) e freschezza (il giovane russo Konstantin Stepanov). Un contingente di grande valore, coordinato in panchina da colui che è forse il più preparato coach di pool attuale, l’olandese Johan Ruijsink.
Naturalmente lo squadrone a Stelle e Strisce non era da meno, e coi campioni di cui dispone non potrebbe mai essere altrimenti. Capitanati dalla leggenda Kim Davenport, gli Stati Uniti schieravano Earl «the Pearl» Strickland, che non ha bisogno di presentazioni, Johnny Archer, campione del mondo come lui, Corey Deuel, Rodney Morris e Shane Van Boening. Tutti e cinque vincitori degli US Open.
Earl "the Pearl" Strickland in uno dei suoi "show"
Quest’anno giocavano in casa gli americani, e nessuna location più suggestiva dell’MGM Grand di Las Vegas poteva ospitare un evento del genere. Solitamente, la squadra ospitante può contare su un fattore determinante: l’apporto del pubblico, colonna sonora monotematica di ciascuna edizione.
I supporter d’oltreoceano, però, stavolta sono stati sorpresi dal numeroso e rumoroso manipolo di tifosi inglesi in trasferta al seguito dei propri beniamini, e il coro «U-S-A-U-S-A», che negli anni passati ha scandito le imprese di Strickland e compagni, veniva questa volta spesso soffocato dai cori pittoreschi degli «hooligans» non violenti del pool europeo.
Proprio questo particolare deve aver fatto traboccare il vaso, ultimamente sempre troppo colmo, di Earl «the Pearl», che non ha fatto nulla per smentire il pensiero comune degli ultimi anni: tanto talento sul tavolo quanta irrazionalità e maleducazione al di fuori.
Dopo un primo giorno tranquillo, con gli USA in vantaggio per 4-1 nella corsa agli 11 punti finali, ed un secondo giorno che ha visto la rimonta dell’Europa fino al 5-5, nel terzo giorno i nervi del pluricampione americano hanno ceduto durante l’incontro contro Souquet. Insulti al pubblico, scorrettezze palesi nei confronti del sempre professionale tedesco, liti persino con i suoi fans sono solo parte del repertorio di un Grande che potrebbe, col solo talento, vivere di prepotenza.
Ralf ringrazia, impassibile, e porta a casa il punto, sotto gli occhi di un pubblico incredulo e di un Tony Drago che, letteralmente furioso, dichiara di non vedere l’ora che Strickland faccia così con lui (che è una montagna).
La Mosconi Cup consiste in singoli e doppi, più, da quest’anno, un match a cui tutti e dieci i giocatori prendono parte. Proprio lo spirito di squadra, grazie a Johan Ruijsink, è stato quello che ha consentito agli europei di essere solidamente in vantaggio per 9-6 alla vigilia dell’ultima tornata di incontri.
Tony Drago, MVP della manifestazione con
4 vittorie su 4 incontri singoli disputati
La giornata finale prevedeva la prima partita tra i due giovani rampanti, il numero 1 europeo (di allora) Stepanov e il campione degli US Open, Van Boening. Con quest’ultimo a prevalere, il match tra Johnny Archer e Tony Drago assumeva importanza fondamentale. Se l’esperienza del primo avesse avuto la meglio sull’infallibile «Tornado maltese», il team europeo sarebbe stato di fronte a quella tensione che negli anni passati troppe volte gli era stata fatale.
Drago, che prima dell’evento era stato aspramente criticato dai giocatori americani, che lo definivano non all’altezza della competizione, per tutta risposta annichiliva il favorito Archer e completava l’impressionante score di quattro vittorie su quattro nei singoli conquistando l’ambito titolo di MVP (Most Valuable Player) della competizione. Alla faccia loro.
Sul 10-7, l’ultimo «capolavoro» di Strickland. Rissa sfiorata con Peach, noto per la sua correttezza, punto comunque agli USA e trionfo rimandato alla partita successiva.
Forse per un segno del destino, proprio il simbolo di quanto possa essere vincente un europeo, Ralf Souquet, aveva in mano l’opportunità di conquistare il punto decisivo contro Rodney Morris. Chi imbuca l’ultima 9 passa alla storia, e nessuno meglio di Ralf, impassibile professionista sul campo e persona di grande classe fuori, poteva meritare questo grande onore.
Finisce come in pochi si aspettavano, con il compatto contingente europeo a festeggiare nel mezzo dell’arena di Las Vegas, i supporter europei a intonare cori da Champions League e gli americani, popolo di sportivi (Strickland a parte), ad applaudire.
L’anno prossimo si torna in Europa, per cercare di accorciare ulteriormente le distanze e rendere l’11-3 attuale un po’ più fedele agli odierni valori tecnici dei due movimenti.
Il sogno? Neanche a dirlo, un italiano nel team. Solo Fabio Petroni, nel 1998, ne fece parte, e da allora l’Italia ha fatto un grande balzo in avanti in risultati e considerazione internazionale. Non vediamo l’ora che Fabio o un altro nostro connazionale torni a portare uno spicchio di azzurro in una competizione così prestigiosa.
L'epilogo, i festeggiamenti e la premiazione della formazione europea